L’educazione, Tara Westover

Laurea di mio fratello. Venezia, esterno giorno invernale, freddo, tanto freddo.
Tradizione vuole, almeno da queste parti, che il malcapitato sia non solo sbeffeggiato e ricoperto di farina ma messo in situazioni di estremo ridicolo e discreto pericolo. Ecco dunque che mio fratello sta in perizoma e maglietta a prendersi pacche sulla schiena (e cinquine sulle gambe, bisogna avere il coraggio della verità signori miei), inzuppato di scadente vino rosso e sferzato dal vento.
Mia madre lo guarda e sconsolata mormora: «Tutti quegli anni a mettere la copertina, togliere la copertina, a copriti che fa freddo, a stare attenta a tutto… e ora eccolo lì, ‘sto scemo».

Eh sì, perché più o meno dall’Ottocento in poi l’infanzia diventa una cosa grande. I bambini non sono più delle mezze persone, ma il germoglio da coltivare, da innaffiare e coccolare perché diventino le persone del domani. Si combattono le morie d’infanti, si mettono in piedi grandi pedagogie, le scuole si sfidano a trovare il metodo più giusto per crescere menti sveglie e reattive. E insieme ai bambini nascono anche I GENITORI, la famigerata armata di coloro che tutto sono pronti a fare per proteggere il piccolo genio che si trovano tra le mani.

E poi arriva lei. Tara Westover. Classe 1986, nata in un paesino dell’Idaho. Per l’anagrafe americana: inesistente. Per la sanità americana: inesistente. Per il sistema scolastico americano: inesistente.

Tara non ha mai visto un dottore, ma si è ammalata, si è fatta male, a volte molto male. Non ha mai visto un libro di scuola, anche se la curiosità ogni tanto le viene. Le sue giornate sono fatte di una casa sulla collina dove vive insieme ai fratelli e ai genitori, delle visite sporadiche ai nonni, di una comunità che si fa sempre più intrigante ma che rimane lontana e sconosciuta. Di violenza, tanta violenza, e degli unguenti impastati di preghiere che rimettono la sua salute alla volontà di Dio.

«Avevo sempre saputo, fin da bambina, che mio padre credeva in un Dio diverso. Anche se la mia famiglia frequentava la stessa chiesa degli altri, la nostra religione non era uguale alla loro. Loro credevano nell’umiltà, noi la praticavamo. Loro credevano nella forza guaritrice di Dio, noi ci affidavamo alle mani di Dio. Loro credevano che bisognasse prepararsi al Secondo Avvento, noi ci preparavamo davvero».

Collage di Francesca Coppola

Poco meno di 400 pagine per raccontare una storia allucinante. Un’infanzia vissuta a contatto con il pericolo e distante da qualsiasi forma di educazione. Niente serie tivù che conoscono tutti, niente film iconici, niente Take That per capirci, ma niente di niente della cultura che ti fa parlare con la gente. Quella che ti impedisce di alzare la mano e chiedere cosa sia l’Olocausto, quella che ti fa muovere nel mondo e in qualche modo abitarlo. Quella che ti rende non tanto una persona informata, o normale, ma una persona capace di relazionarsi con gli altri e abitare la realtà.

Poco meno di 400 pagine per sentire dentro tutto il peso di quella cosa che ci costruiamo tutti i giorni a contatto con il mondo. Per strabuzzare gli occhi e ripetere continuamente «non è possibile». Per pensare, più o meno a un terzo del libro, «okay, ora ha detto tutto, come continuerà?» e poi ripartire di corsa perché da dire c’è ancora tanto. Per ringraziare Dio di aver avuto accesso a una vita intera, alla cura di quella vita, a qualcuno che si preoccupasse per te e non rimettesse tutto a Dio, che non pensasse che la sanità fosse un sistema corrotto da sabotare, che la stampa fosse il covo del demonio e la scuola un modo per deviare le menti dei bambini.

Più o meno 400 pagine per ringraziare il cielo del papà che se gli chiedevi un libro per una ricerca ne impilava duemila e ti dedicava il pomeriggio, per la maestra Rosetta che ti faceva uscire l’analisi grammaticale dalle orecchie, per quella mamma che «metti la copertina e togli la copertina».

Per aver avuto in regalo un mondo fatto di relazioni, di cura e di parole. E non averlo dovuto costruire da soli una volta cresciuti. Anche perché… da dove cominciare? Dalla matematica, okay, ma poi come si costruisce tutto quello che non è nozione ma vita?

L’educazione è un libro che scorre, come spesso si dice. Ma che non scivola via. E anzi rimane lì a lavorarti dentro. È uno di quei libri difficili da incanalare in un genere: non è un’autobiografia, anche se parla della storia personale dell’autrice, non è un memoir, non è un diario, ma neanche un romanzo né tantomeno un saggio. È il libro che racconta la storia vera di Tara Westover, di come l’educazione l’abbia salvata da un mondo fatto di violenza, solitudine e paura.

Non è un’opera somma di letteratura, ma è il libro che vi tornerà in mente a più riprese da qui alla fine dell’anno, quando magari vi troverete a rispondere a qualcuno che vi chiede «cosa hai letto che ti ha colpito?». Ecco. Questo.

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