Maternità, di Sheila Heti (uscito nelle librerie italiane quest’anno grazie a Sellerio), forse non può essere considerato una classica lettura estiva: non è un libro da portare spensieratamente sotto l’ombrellone, di quelli con la fascetta con su scritto «si legge tutto d’un fiato», ma con questo lungo post – se non fosse abbastanza chiaro – vogliamo consigliarvi di leggerlo, senza aspettare un minuto di più.
Di che cosa parla? Il titolo non lascia spazio ai dubbi. A trentasette anni la scrittrice canadese si chiede se vuole (se deve?) avere un figlio e mentre ci riflette (è una riflessione che dura qualche anno, anche se le pagine sono «solo» 290), scrive; per consegnare nelle nostre mani (per porgerci con amore? Per tirarci in faccia?) un diario di riflessioni che la (ci?) sconquassano.
Che effetto fa leggere le sue parole? A dire il vero siamo abbastanza certe che per ognuna sarà diverso. Noi non ne siamo uscite indenni e cercando di raccontarvi le ragioni per cui non tanto la sua risposta, quanto piuttosto la legittimità della sua domanda ci abbia colpito e affascinato, di domande ce ne siamo fatte altre. E questo è il risultato:
Letizia: Ciao Stefania, tocca a me iniziare questa conversazione su un libro che mi hai suggerito e prestato. Di Maternità di Sheila Heti qui parleremo a lungo, più di quanto non abbiamo già fatto di persona, ma vorrei partire dalla fine: cosa ti dà abbastanza coraggio per consigliare questo libro – un libro che si svela, in quarta di copertina, con la frase «se voglio avere figli è il più grande segreto che nascondo a me stessa» – a un altro lettore? C’entra quello che hai imparato tu o quello che pensi di conoscere dell’altro? Lo consiglieresti a tutti? A chi sta pensando di avere figli? A chi ritieni abbastanza intelligente? A un uomo?
Stefania: Come ben sai ho consigliato questo libro a molte donne. Alle amiche a cui voglio bene e con cui ho avuto modo di chiacchierare di recente, a quelle che si sono interrogate o s’interrogano sull’argomento (che prima o poi, in un modo o nell’altro, tocca tutte) con una certa premura (per questioni anagrafiche, filosofiche, esistenziali), alle colleghe di lavoro. E l’ho fatto per moltissime ragioni diverse che voglio provare a sintetizzare tornando su un punto a mio parere cruciale, di cui io e te abbiamo già discusso: la consapevolezza. Penso che sia necessario interrogarsi sulla maternità con estrema onestà, colloquiando con la parte più intima – e se vuoi anche un po’ più oscura e vischiosa – di noi stesse, per imparare a riconoscere i nostri desideri, a guardarli in faccia e chiamarli per nome. Sheila Heti mi ha accompagnato sull’orlo del (suo) precipizio per offrirmi l’eccezionale opportunità di guardare che cosa ribolle laggiù e lo ha fatto senza pretendere di darmi risposte, bensì cercando la sua e condividendo un racconto privato, coraggioso, doloroso, che ha una portata quasi rivoluzionaria. La grandezza delle sue parole risiede nella capacità di scardinare i miti costruiti intorno a un tema sacro e importante per me, come probabilmente – forse – per tutte le donne. Non trovi? Cosa ne pensi? C’è una parte del libro che ti ha colpito particolarmente?
Letizia: Il libro è pieno di momenti che io ho trovato illuminanti, ma posso dire che uno dei passaggi che mi ha colpito con più forza riguarda l’assunzione di psicofarmaci. Più dell’argomento in sé – che mi sta particolarmente a cuore e di cui sento di non sapere ancora abbastanza – ho trovato qui spiazzante l’uso narrativo che ne viene fatto: il farmaco ci allontana dall’angoscia di una riflessione circolare, silenzia il caos e permette l’inizio della guarigione. In parole più brutali, il farmaco ci guarisce dalla febbre di maternità. Il lancio delle monete per interrogare l’I Ching però è di sicuro la mia cosa preferita. All’inizio mi faceva sorridere, poi ha iniziato a inquietarmi – come il più sibillino e temibile degli oracoli –, alla fine mi ha svelato un metodo parecchio audace per costringersi ad andare più in là proprio quando ti senti il più in là possibile. Dove pensi che sia, oggi, la collettiva riflessione sulla maternità? Ti sto chiedendo una generalizzazione, lo so, ma mi interessa sapere secondo la tua particolarissima percezione sull’argomento se abbiamo bisogno di lanciare ancora qualche moneta.
Stefania: Credo esista un «culto istituzionalizzato» della maternità che abbiamo interiorizzato tutti quanti, di cui parla Flavia Gasperetti nella sua bellissima recensione del libro (che vi segnalo). Ad alcune domande (voglio davvero un figlio? Perché? Sono certa di non volerlo? Perché? Ho paura? E di che cosa? Una donna è diversa da una madre? Perché?… Queste domande mi frullano in testa da anni) vengono spesso date risposte preconfezionate. La riflessione è ferma, ma prima che collettiva dev’essere individuale e, come in un circolo virtuoso, da personale deve diventare «politica». Le monete sono un pretesto per andare oltre, affidandosi al destino per percorrere strade non scontate, che altrimenti non sceglieresti. È un’idea tanto inquietante, come dici tu, quanto liberatoria. Non credi?
Letizia: Sì, sono perfettamente d’accordo. È prima inquietante e poi liberatorio ammettere a se stessi una verità nuova, una verità che ci sembra estranea all’inizio e che diventa sempre più nostra, mano a mano che la osserviamo e la comprendiamo. Credo, poi, che questo valga sia per chi non vuole avere figli sia per chi decide di averne: trovo che il «culto istituzionalizzato» di cui parli influisca anche sul percorso intimo e privato che porta alla decisione di diventare madri, che non è sempre granitico come chi scrive, qui, ha la necessità di sentire. Ecco, mi piacciono le monete perché costringono tutti ad andare oltre, a prescindere dalle azioni.
Stefania: Tra queste pagine non sono soltanto le monete a spingerci oltre. A me ha colpito particolarmente la trasformazione della protagonista (e autrice del libro) per la sua capacità di dare un senso nuovo a entrambe le esperienze: avere e non avere figli. Sheila Heti si scopre e riscopre anche nel confronto con la madre, con il compagno, con le amiche, con Dio…
Letizia: Già. A questo proposito mi viene in mente l’episodio che vede Giacobbe alle prese con la sua estenuante lotta con l’Angelo. Al termine, «allo spuntare dell’alba», il luogo dello scontro viene battezzato Penuel, «perché è dove ho visto Dio faccia a faccia, eppure ho avuto salva la vita». Questo luogo è ciò che, per chi parla, corrisponde a Maternità. Secondo te, è possibile avere direttamente salva la vita senza baruffare con l’Angelo? È ipotizzabile, per te, per me o per chiunque altro, osservare la battaglia di Sheila Heti e del suo personaggio evitandoci poi il nostro personalissimo faccia a faccia con Dio? Insomma: può – o dovrebbe – qualsiasi donna rinunciare all’inferno di scontrarsi con se stessa, a prescindere da quale sarà, infine, la sua salvezza?
Stefania: Baruffare con l’Angelo porta alla consapevolezza di cui parlo e in cui credo: guardare in faccia Dio è un po’ come guardarsi allo specchio. Soltanto dopo averlo fatto si può scegliere da che parte stare, come vivere quel che rimane della propria esistenza. Per me personalmente si tratta di una necessità impellente, di una scelta di vita, ed è una baruffa quotidiana. Che cosa dovremmo fare altrimenti? Che senso ha, altrimenti, stare al mondo? L’Angelo per me rappresenta gli altri, i condizionamenti esterni, i limiti e le opportunità: è il mio migliore amico e il mio peggior nemico. È la solitudine, la comunità, la mia coscienza. Questo però vale soltanto per me… Tu come la vedi? Chi è il tuo Angelo e perché vuol baruffare con te?
Letizia: Non so proprio perché voglia baruffare con me, sono una personcina adorabile… Dirò forse banalmente che il mio Angelo è la parte più demoniaca di me, quella che, come il diavolo biblicamente inteso, vuole conoscere, vuole capire, vuole sfidare. Quest’anima è irrequieta di natura, non accetta alcuna risposta, neanche quelle forse sincere: prende le forme più infide – gli occhioni neri di un nipote, la catastrofe ambientale, la nostalgia di un senso di famiglia – e conosce bene i tuoi punti deboli. Ognuno trova il proprio modo per vincere l’Angelo (imprigionarlo in una teca limpida, lasciarlo libero di importunarci in ogni momento, ammazzarlo per sempre e seppellirlo lontanissimo da noi): il mio, oggi, è rispettarlo, accettare la mia debolezza e usare tutta la mia forza.
Le cose che si possono dire su questo libro sono potenzialmente infinite e invadono infiniti territori – la letteratura, la filosofia, la sociologia, la psicologia, l’antropologia… Quello che abbiamo provato a fare qui e che ci capita spesso di fare insieme, davanti a un bicchiere di vino, è stato di svelare progressivamente l’intimità del nostro io, aprendoci a domande inaspettate per trovare risposte sempre nuove. Ci sembra la cosa che più si avvicina al nostro personale concetto di amicizia. Buona lettura, buona baruffa con il vostro Angelo, buona riflessione, amiche.