Non solo muse: Tamara De Lempicka

«Io vivo ai margini della società, e le regole della società non hanno potere su coloro che vivono ai margini.» Tamara de Lempicka (1898-1980)

Tamara, divinità ribelle dell’Art Déco: una donna così impetuosa e al di sopra le regole non poteva che diventare regina della sua epoca. Ancor oggi continua ad affascinare, a essere la musa delle muse. La popstar Madonna, tra tutti, è la più grande collezionista delle sue opere, ne ha fatto un riferimento quasi sacro. Ma quanti prima di lei?

Tamara de Lempicka, Autoritratto sulla Bugatti verde, 1929

La strabiliante vita dell’artista è sempre stata avvolta nel mistero, da lei stessa alimentato in un continuo gioco d’illusione e costruzione del proprio personaggio. Era solita dirsi più giovane, come anche nascondere le proprie origini ebree e polacche, attribuendosi la provenienza russa del padre, l’avvocato Boris Gurwik-Górski, che le conferiva un’allure più austera e aristocratica.

Nata a Varsavia nel 1898, Tamara cresce tra le feste mondane e i vizi della nobiltà, al seguito della madre Malwina – socialite di origine francese –, o della ricca zia a San Pietroburgo. Sviluppa presto attenzione e devozione per il bello, grazie alla nonna Clementine, che la vizia con abiti lussuosi, le migliori scuole e i viaggi in Italia, dove s’innamora dell’arte. Sviluppa un senso estetico assoluto, nonché la capacità di assorbire e amare la bellezza (che le apriranno la strada per la grandezza e per la rovina).

Si narra che all’età di dieci anni, insoddisfatta di un ritratto che la madre aveva commissionato per lei, sia scesa dalla pedana di posa, abbia impugnato i pastelli e si sia messa all’opera, ritraendo sua sorella Adrienne, per dimostrare al pittore il modo giusto di fare. È un preludio.

Nel 1911, durante una delle tante feste in maschera a San Pietroburgo – lei graziosa adolescente travestita da guardiana delle oche – conosce Tadeusz Łempicki, nobile avvocato e celebre seduttore. Decide, col fare risoluto che la caratterizzerà per tutta la vita, che Tadeusz diventerà suo marito. Si sposano pochi anni dopo e hanno subito una figlia, Marie Christine, detta Kizette.

A rompere gli equilibri di questa vita agiata, di giovane sposa e madre, sarà la Rivoluzione Russa del 1917 che obbliga la famiglia di Tamara a scappare in Danimarca. In questa situazione difficile, Lempicka si troverà a prendere coscienza della propria potente sensualità, come strumento per piegare gli altri ai propri voleri. Grazie alla sua avvenenza riesce a ottenere dal console il lasciapassare per sé e per il marito, arrestato dai bolscevichi per essere fedele allo zar.
 E questa sarà una prima crepa nel rapporto tra Tamara e Tadeusz, ferito nell’orgoglio per essere stata salvato grazie alle seduzioni della moglie. Insieme riescono a lasciare la Russia e a rifugiarsi, infine, in Francia.

L’ingresso a Parigi non è dei più trionfali: gli esuli russi sono affamati, ridotti in miseria, passati dall’essere governatori e granduchesse, a umili che conquistano un tetto con i talenti che hanno. Tamara vende i propri gioielli per mandare avanti la famiglia e Tadeusz, inadatto ai lavori umili, decide di riciclarsi nel mercato dei beni di lusso di contrabbando, provenienti dalla nobiltà russa decaduta.

Ma Tamara ha chiaro il proprio destino: essere un’artista, farsi conoscere, diventare grande, ammaestrare quella città.
 Presto si unisce a una piccola comunità di ebrei russi, tra i quali Marc Chagall e la scultrice Chana Orloff: una fucina di idee. Incoraggiata dalla sorella Adrienne, che sarà sempre il cuore pulsante delle sue fortune, Tamara inizia a seguire un corso di pittura all’Académie Ranson, ma dopo un anno l’abbandona – annoiata dalla banalità dell’arte moderna – per diventare allieva di André Lothe, suo vero e unico maestro. Da Lothe apprende magistralmente l’uso cubista della luce e del colore.

Nello stesso anno esordisce nell’universo della moda, come indossatrice e come designer di cappellini da donna. Il suo fascino magnetico viene catturato anche dai fotografi del momento, incluso Brassai. La «donna d’oro» già luccica al cospetto della scena parigina, e sta per diventare una folgore. 
Inizia la sua vita di eccessi ed episodi leggendari: uno fra tutti, il tentato incendio del Museo del Louvre, assieme a Marinetti e agli altri amici futuristi (fortunatamente non riuscirono a portare a termine il folle piano!).

Il 1921 è decisamente l’anno dell’autoconsapevolezza. Tamara scopre la propria bisessualità: un passaggio fondamentale nella sua crescita artistica. S’innamora di Ira Perrot, sua vicina di casa; la ritrae compulsivamente, in preda a una febbre erotica che rende i suoi lavori vividi, luminosi, diversi. 
Uno stile definito da Lothe «cubismo morbido», preciso ed elegante. Oltre a Ira, fa la conoscenza di Rafaela, una donna bellissima che incontra durante una passeggiata, dell’attrice e cantante Suzy Solidor e della duchessa Marika de La Salle, donna potente nell’ambiente elitario dei galleristi, il cui ritratto diverrà simbolo della donna moderna. Tadeusz, nel frattempo, annichilito dalle ristrettezze economiche e mal sopportando la condotta libertina della moglie (che peraltro ricambia con la stessa moneta), riesce almeno a trovare impiego in una banca, mentre a occuparsi di Kizette, ormai abbandonata da entrambi, è la nonna Malwina.

Kizette dirà della madre: «Aveva le sue leggi, ed erano quelle degli anni Venti. Le interessavano soltanto quelle persone che lei chiamava “le migliori”: gli aristocratici, i ricchi e l’élite intellettuale. Come qualunque persona di talento, anche mia madre era convinta di meritarsi tutto ciò che il mondo poteva offrire e questo le dava la libertà di frequentare solo chi poteva aiutarla o contribuire a sviluppare il suo ego.»

Lo sguardo di Tamara si rivolge a Kizette solo per ritrarla, oppure a notte fonda, di rientro dalle feste sfrenate, quando le racconta le sue prodezze e le persone che ha conosciuto. Ormai completamente assorbita dall’attività pittorica e dalle instancabili amanti, dipinge giorno e notte con Wagner a volume spropositato, fa uso abituale di cocaina, è una celebrità eccentrica nell’ambiente lesbico di Parigi, annoiata dalle banalità.

Per la sua mostra del 1925 in Italia, arriva a produrre ventisei tele in pochi mesi. Espone nei più esclusivi salotti dell’alta borghesia. È la ritrattista più in voga e ambita dall’élite, con compensi fino a 50.000 franchi a ritratto (un’enormità per il tempo).

Le voci sulla sua languida bellezza arrivano all’orecchio di Gabriele D’Annunzio, che la convoca al Vittoriale, col pretesto di farsi ritrarre. Tamara ha alte aspettative sull’intellettuale seduttore, e invece si ritrova davanti un uomo pretenzioso e villano, al quale nulla importa della sua arte. Si racconta che gli abbia concesso, per umiliarlo, di baciarle un’ascella per poi lasciare la villa in taxi, sdegnata, senza nemmeno portare a termine il suo lavoro. A nulla sono valse le lusinghe, il denaro e l’anello di topazio (recapitato in hotel su un cavallo bianco, assieme al poema dal titolo «Donna d’oro»).
Tamara amava la seduzione, ma probabilmente non voleva essere un trofeo sulla mensola di «un vecchio nano in divisa», come lo apostrofò.

Non è certo questo episodio a turbarla, nel momento di massimo splendore. 
I ritratti femminili di Lempicka si nutrono della stessa passione che prova per le donne e le loro forme, ed è questo a rendere unica l’interpretazione pittorica: libere, sensuali, sgargianti, voluttuose, spesso vestite di solo rossetto, adagiate su stoffe preziose, protagoniste, in piena luce. Non si nascondono e non si curano dello sguardo dell’osservatore, guardano lontano, verso l’irraggiungibile. 
Da molti vengono percepite come algide, ma questa era l’idea che Tamara trasmetteva alle persone da cui non voleva essere avvicinata.

Nel 1927, Tadeusz la lascia e si trasferisce con la nuova compagna in Polonia. Tamara, nonostante i trascorsi, si deprime per questo abbandono e cerca di riconquistarlo. Ma il lavoro continua a essere la sua massima priorità e proprio quell’anno vince il più grande premio della sua carriera all’Expo Internazionale di Belle Arti, a Bordeaux. Dipinge il famoso autoritratto «Bugatti verde» per la copertina del Die Dame, che racchiude tutta la nuova Tamara: emancipata, spericolata, potente, elegantissima – con guanti, rossetto, ed elmetto – inaccessibile. Un ritratto emblematico che la consacrerà come icona, e verrà ripreso dal New York Times più tardi.

L’anno seguente, ritrae la ballerina Nana Herrera, amante del barone Raoul Kuffner de Dioszegh. Tra i due la tensione erotica è immediata, e ancor prima di finire il ritratto, giudicato da molti diverso dal suo stile, quasi funebre, Tamara aveva preso il suo posto accanto al barone.

Nei primi anni ‘30 dipinge ritratti di grandi reali e i musei iniziano collezioni a lei dedicate. Tre anni dopo il primo incontro sposa il barone e inizia una fase della sua vita più distesa, grande nella fama ma libera dagli eccessi. Lui le procura una mostra negli Stati Uniti. Partono insieme e si trattengono oltreoceano per due anni. Lei si reinventa baronessa de Lempicka Kuffner, rinnega la maternità e l’esistenza di Kizette. Lavora tra New York, Chicago, Santa Fe e Detroit, richiesta da milionari, collezionisti e gallerie, sfruttando le ispirazioni avanguardistiche della metropoli, che cambiano lo sfondo dei suoi dipinti in ambienti urbani, cupi. Tamara prevede sul nascere la Seconda Guerra Mondiale, e mette al sicuro sé, il barone, e persino Kizette, facendola scappare dalla Francia nazista assieme al marito.

La «baronessa col pennello» non si sente più apprezzata dalla critica, sperimenta con il Surrealismo, e accusa il mondo di non avere più gusto. Riallaccia i rapporti con Kizette, che – tenace, nonostante tutto – è diventata una donna di successo, laureata a Oxford e poi a Stanford.

Nel 1961 muore l’amato Barone, pochi giorni prima di una grande mostra a New York. Il successo di critica e pubblico non è più quello di una volta e il carattere di Tamara è sempre più spigoloso. La diva lascia un po’ il passo ai «tempi sgraziati» che corrono. Nel 1972 riappare in occasione di una sontuosa mostra alla Halles di Parigi dove sono esposti i suoi successi (che lei considera fuori moda): è un’occasione per mostrarsi di nuovo in pubblico in splendida forma, elegantissima come sempre.

Nel 1976 si ritira in Messico, dove morirà accanto a Kizette e al suo ultimo, giovane compagno, l’artista Victor Manuel Contreras. Le sue ceneri vengono disperse sul vulcano Popocatepetl come da suo volere. Epilogo perfetto di una vita straordinaria.

Contreras and Lempicka circa 1980
 – Tamara de Lempicka e Salvador Dalì, fotografia scattata in occasione della mostra alla Julien Levy Gallery, NY, 18 aprile 1941.

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